La violenza sugli uomini: un po’ di storia
All’inizio dell’età moderna in Europa si svolgevano delle “processioni” attraverso manifestazioni plateali di rabbia e di scherno, verso chi trasgrediva le norme sociali della comunità. Tale usanza, definita Chavirari, era utilizzata per punire situazioni o comportamenti ritenuti anomali, come ad esempio, il matrimonio tra persone anziane o tra persone vedove. Grazie a dei documenti storici, provenienti soprattutto dall’Inghilterra, si è venuto a conoscenza che tali manifestazioni riguardavano anche gli uomini picchiati dalle proprie mogli. Queste “processioni” erano progettate per esprimere indignazione riguardo alla violenza subìta dai mariti e sulla loro incapacità di imporsi come autorità nei confronti delle partner.
Nell’ Inghilterra occidentale questi eventi erano denominati Skimmington. Il termine deriva dal mestolo usato dalle donne per la produzione del formaggio, più volte raffigurato come un’arma per aggredire i mariti (fig.1)
Immagine del 1200 d.C. che raffigura una donna picchiare un uomo con un mestolo (George, 2002)
Ben presto si associò ad essi la condizione degli uomini come vittime delle proprie mogli, acquisendo significato di derisione. Mrs Skimmington divenne un appellativo attribuito alle donne violente. Uomini, dunque, vittime sia dalle proprie donne che dalla società che li derideva per non essere capaci di dimostrare la propria supremazia sul sesso femminile.
La violenza sugli uomini: i primi studi
Nel 1978 Suzanne Steinmetz, definì Battered Husband Syndrome ovvero Sindrome del Marito Battuto, l’insieme di vessazioni psicologiche, fisiche, sessuali, economiche, perpetrate da una donna nei confronti del proprio partner. Grazie ai risultati della prima ricerca, condotta nel 1977 dalla stessa Steinmetz, è stato possibile dimostrare l’esistenza della violenza al femminile. Essa risultò subito in contrasto con la visione della donna come unica vittima di IPV (violenza domestica) facendo scaturire nella comunità scientifica non poche reazioni e polemiche.
Esiste, dunque, la violenza bidirezionale, con protagonisti e vittime sia uomini che donne. Una violenza che cambia nelle forme e nelle conseguenze ma non negli effetti sulla vittima. Cambia, infatti, la manifestazione del dolore. L’uomo, a causa del retaggio culturale che lo vede e vuole forte, sia fisicamente che emotivamente, nega la propria sofferenza spesso anche a sé stesso. La violenza subìta dalle donne è resa pubblica mentre quella subìta dagli uomini viene nascosta sotto un manto di segretezza.
Di certo i danni fisici arrecati alle donne sono molto più evidenti rispetto a quelli sugli uomini, permettendo loro di avere riconosciuto quanto vissuto. La superiore forza fisica maschile, però, può costituire uno svantaggio perché in certe situazioni li trattiene dal difendersi dalle aggressioni delle loro donne, temendo di causare danni irreparabili.
La violenza sugli uomini è una violenza taciuta, negata a sé stessi e agli altri, e allo stesso tempo negata dagli altri. Una violenza inimmaginabile per una società pronta a condannare un uomo considerato incapace di difendersi e reagire. Una violenza molto spesso sminuita sia nei danni che nelle conseguenze. Le donne utilizzano la violenza fisica in misura equivalente all’uomo ed esercitano soprattutto violenza psicologica, sotto forma di controllo, umiliazioni, insulti, intimidazioni e isolamento, con lo scopo di ottenere il controllo, ledendo la loro autostima.
Che il fenomeno della violenza sugli uomini sia negato o poco considerato, lo dimostra anche il fatto che, a differenza degli altri paesi europei, l’Italia vanta di poche ricerche scientifiche. Pochi autori, infatti, hanno dato il proprio contributo al riguardo.
Il ruolo dei media contribuisce alla “normalizzazione” pubblica della violenza femminile. Un uomo che, ad esempio, in un reality show schiaffeggia una donna suscita sdegno sia dai conduttori che dagli spettatori ed appare “doverosa” l’espulsione. A ruoli invertiti invece, tale scena suscita ironia, la violenza diviene “normale”, lecita anche pubblicamente. Il messaggio è che le donne non sono violente e se lo sono agiscono una violenza “lieve”, positivizzata e normalizzata dai media e dalla società.
Perché gli uomini rimangono in una relazione violenta?
Pur avendo maggiori risorse economiche e sociali non sono mai incoraggiati a chiudere il rapporto. Tale gesto è considerato come un atto di codardia e di incapacità di “farsi valere” piuttosto che una liberazione, come spesso suggerito alla donna. Teme di non vedere più i propri figli, considerato che una minaccia frequente della partner è proprio quella riferita all’allontanamento da essi. Alcune situazioni vedono l’uomo dipendente emotivamente dalla partner dalla quale non riesce a distaccarsi.
Il sostegno psicologico è fondamentale affinché, così come per le donne, gli uomini possano acquisire la consapevolezza di vivere una relazione disfunzionale, priva di amore e di trovare la forza di porre fine e prendersi cura di sé stessi.
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